Ad alcuni è piaciuto molto, ad altri meno. In ogni caso, la fiction andata in onda domenica scorsa su RaiUno è un piccolo miracolo. Sia perché è uno dei primi film italiani girati tra mille difficoltà in tempi di pandemia, sia per la grande statura del personaggio che rievoca. Chiara Lubich – L’amore vince tutto ha totalizzato 5.641.000 telespettatori e uno share del 23%. Davvero non male.
Il film diretto da Giacomo Campiotti, con Cristiana Capotondi nel ruolo principale, non è esente da imperfezioni. Si concentra, ad esempio, quasi esclusivamente sui momenti della fondazione del Movimento dei Focolari ma questo è il difetto più perdonabile. Sarebbe stato pressoché impossibile concentrare in due ore l’intera vita di Chiara Lubich (1920-2008). C’è qualche eccesso retorico nelle immagini, un’enfasi esagerata sulle questioni della Resistenza. Anche la descrizione del rapporto contrastato della Lubich con le istituzioni ecclesiali del suo tempo è eccessivamente dicotomica: i “buoni” sono i giovani, gli innovatori e le donne, contrapposti ai “cattivi” retrogradi, anziani e uomini. Al di là di questi limiti, Chiara Lubich – L’amore vince tutto è stata una bella boccata d’aria pura per gli amanti della fiction religiosa e delle storie dei santi. Il film di Campiotti ha avuto infatti il merito di cogliere almeno tre aspetti importanti.
È nel fango delle tragedie che sbocciano i fiori della santità
Chiara Lubich non intese fondare nessun movimento. La nascita dei Focolari fu una necessità generata da un’emergenza della storia. Il primo nucleo di Focolarine a Trento si formò a seguito del voto di castità dalla Lubich il 7 dicembre 1943. La fondatrice aveva avvertito un giorno la vocazione alla vita consacrata. Non per diventare suora all’interno di una congregazione, né per fondarne una sua. Ciò a cui il Signore la chiamava era a donare tutta se stessa a Cristo e alla Chiesa, nel servire gli ultimi: nel caso specifico i trentini vittime dei bombardamenti alleati e delle rappresaglie naziste. L’aggregazione delle prime cinque focolarine fu la consequenziale messa in pratica di un principio evangelico al quale Chiara si richiamava ripetutamente in quel sofferto debutto: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sarò con loro” (Mt 18,20).
La contingenza del momento richiedeva alla Lubich a percorrere la strada della radicalità del Vangelo nel soccorso ai più sfortunati. Uno scenario come quello bellico può tirare fuori il meglio o il peggio degli uomini. Nella libertà dei figli di Dio è inclusa anche la possibilità di rispondere al male con il bene. All’odio si può rispondere con l’amore. Senza dimenticare che alla sofferenza, si risponde con la vicinanza. Una lezione straordinariamente attuale in tempo di pandemia.
Vivere il Vangelo è andare controcorrente
In un contesto di dolore e disperazione, Chiara Lubich e le sue prime compagne portarono il sorriso e la gioia. Riuscire a sorridere in tempo di guerra – giova ripeterlo – non è mai possibile con le sole forze umane. È possibile solo con l’impulso di Dio. Stesso discorso se si vuol vivere il Vangelo sine glossa, alla lettera, senza compromessi. Il film trasmesso domenica scorsa mostra bene il principio della condivisione cristiana: Chiara era disposta a donare tutto ciò che aveva, anche a costo di privarsi dell’essenziale e di attirarsi la perplessità delle sue compagne. Ma lo faceva perché aveva la certezza di ricevere il “centuplo quaggiù”.
Nel dar vita al primo nucleo dei Focolari, la Lubich dovette sfidare le convenzioni ecclesiastiche del tempo. Che un gruppo di laici si mettesse a commentare il Vangelo in assenza di un sacerdote, nel 1943 era considerato ai limiti dell’eresia filo-protestante. Che un gruppo di ragazze andasse a vivere da sole, sia pure per nobili ed evangelici scopi, era considerato qualcosa di assolutamente sconveniente. Che una donna volesse fondare un movimento ecclesiale, conservando lo status di laica, era qualcosa senza precedenti. Eppure, Chiara Lubich non fu mai un’anticonformista per provocazione ma lo fu, paradossalmente, per obbedienza. Compiacere Dio le importava molto più che compiacere gli uomini.
Essere fedeli fino in fondo alla propria vocazione, può comportare anche conseguenze dolorose e la Lubich lo sperimentò sulla sua pelle. L’incomprensione del suo parroco e del suo vescovo. Il lungo “processo” affrontato in Vaticano, le accuse di protestantesimo e comunismo. Fino all’approvazione pontificia del Movimento dei Focolari. Uno “sdoganamento” per il quale la Lubich pagò un prezzo altissimo: la rinuncia alla guida del movimento per dodici anni. Un dolore umano grandissimo, accompagnato da una certezza consolante: i Focolari non erano opera di Chiara ma opera di Dio.
Il centuplo quaggiù
Nel suo cammino non privo di ostacoli e momenti bui, Chiara Lubich è diventata la donna dei record: come viene ricordato alla fine del film, è stata la prima donna bianca non musulmana a parlare nella moschea di Harlem a New York. Da donna cattolica è stata chiamata a parlare a migliaia di monaci buddisti in Giappone e Thailandia. Incontrando per ben 25 volte in 5 anni (1967-1972) il patriarca di Gerusalemme, Atenagora, ha contribuito in modo determinante al riavvicinamento tra cattolici e ortodossi.
Già negli anni ’40-’50, anticipò alcune delle innovazioni del Concilio: l’affermazione del ruolo dei laici, l’ecumenismo, la riscoperta di un’economia di comunione. Inaugurando nel 1964 a Loppiano la prima Cittadella (o Mariapoli), realizzò uno dei suoi sogni più ambiziosi: edificare una comunità in cui ogni giorno e ogni istante fosse finalizzato a realizzare il comandamento impartito da Nostro Signore: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12).
Nella sua modernità e lungimiranza, tuttavia, Chiara Lubich fu, al contempo, una donna della tradizione. Profondamente “mistica” e mariana, fu fautrice di una “restaurazione” della Chiesa delle origini: “povera”, fortemente radicata nel Vangelo e, soprattutto nel segno dell’unità. Perseguire a una Chiesa unita o, meglio ancora unificata, è un messaggio rivoluzionario e in totale controtendenza ai giorni nostri. In un certo senso, era la stessa Lubich a riconoscerlo: “Vorrei che l’Opera di Maria, alla fine dei tempi, quando, compatta, sarà in attesa di apparire davanti a Gesù abbandonato-risorto, possa ripetergli: ‘Quel giorno, mio Dio, io verrò verso di te… con il mio sogno più folle: portarti il mondo fra le braccia’. Padre, che tutti siano uno!”.