Che ecologia è, se non è anche “umana”?

Ecologia
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La settimana che si chiude è stata calda non solo sul fronte meteorologico ma anche per quanto concerne i temi del Green Deal e della transizione ecologica. Al Parlamento Europeo sono stati votati due importanti progetti di legge, con esiti diversi, per certi versi opposti. Martedì 11 luglio è stato approvato (con 396 voti a favore, 102 contrari e 131 astensioni) un emendamento che esclude gli allevamenti bovini dalla direttiva sulle emissioni industriali (Ied).

Un voto di segno contrario avrebbe penalizzato enormemente un comparto importantissimo per l’economia europea, come quello della carne e del latte. Gli eurodeputati, però – con un voto trasversale che ha spaccato l’ormai collaudata grande coalizione Popolari-Socialisti – hanno optato per una linea del realismo, discostandosi dalle posizioni oltranziste della Commissione Europea, rappresentate in modo particolare dal vicepresidente della Commissione, l’olandese Frans Timmermans, estensore della proposta originaria.

Più complesso è lo scenario riguardante il voto di mercoledì 12 luglio, giorno in cui l’Europarlamento si è espresso sul cosiddetto “Ripristino di natura”. La norma – sottoposta a una negoziazione per renderla più appetibile ai Popolari, parte dei quali, effettivamente, l’hanno votata – mira a riabilitare almeno il 20% degli ecosistemi degradati d’Europa entro il 2030 e stabilisce obiettivi vincolanti in sette campi d’azione, come terreni agricoli, torbiere, e fondali marini. L’obiettivo, secondo i sostenitori di questa riforma, è quello di fermare il danno ambientale causato dall’attività umana incontrollata e dai cambiamenti climatici. Questa misura, a differenza della precedente, è passata con 336 voti a favore, 300 contrari e 13 astensioni.

Come accennato, le tematiche legate alla transizione ecologica sono diventate sempre più divisive e dirimenti e rischiano di condizionare fortemente le coalizioni partitiche sia all’interno dell’Unione Europea (a meno di un anno dal rinnovo dell’Europarlamento), sia degli ordinamenti nazionali. In realtà, il tema va molto al di là della politica contingente e abbraccia i cambiamenti strutturali e antropologici di questi anni. Nei suoi principi fondamentali, la transizione ecologica mette d’accordo più o meno tutti, al di là delle appartenenze ideologiche: è necessario inquinare di meno, organizzare la vita sociale e individuale in maniera più sostenibile, per non spezzare il delicato equilibrio che lega la specie umana alle specie vegetali e animali e all’intero creato.

Dov’è allora che l’umanità si divide? Sulle modalità e sulla tempistica con cui questa transizione va posta in atto. Taluni ritengono vada affrontata lungo “piccoli passi possibili”, tenendo conto delle esigenze di tutti, in particolare di chi, a livello professionale, svolge attività realmente o apparentemente pregiudizievoli nei confronti dell’equilibrio ecologico. Un’altra parte dell’umanità – europea e occidentale in primis – ritiene che questo processo vada accelerato, senza troppi compromessi, anche a costo di sacrifici sociali particolarmente elevati. Un tema su tutti: il rimpiazzo delle auto a benzina con le auto elettriche entro il 2035, senza troppo riguardo per l’elevato costo dei nuovi veicoli ecologici e per alcuni obiettivi disagi che comportano e che li stanno rendendo così poco appetibili sul mercato.

La vera chiave di volta, evidentemente, è nel cambiamento climatico, fenomeno reale ma estremamente interpretabile in un senso, come nell’altro. È proprio il clima ad aver profondamente condizionato, nell’ultimo quarto di secolo, l’intero movimento ambientalista. È in nome del clima che le lobby della transizione ecologica premono per cambiamenti più rapidi, spesso in modo spregiudicato e neanche troppo disinteressato. Sembra quasi che il contenimento della temperatura mondiale venga prima di ogni altra cosa, persino del benessere umano e della pace.

Fino a non molti anni fa, oltretutto, i militanti ambientalisti erano anche rigorosamente contro tutte le guerre e contro tutte le escalation militari. Poi qualcosa è cambiato. Quando Greta Thunberg ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è limitata ad esprimergli le proprie preoccupazioni – giustissime, per carità… – sull’ecocidio provocato dalla distruzione della diga di Kakhova: non una parola, in compenso, sull’uranio impoverito, fornito dai britannici a Kiev, né sulle bombe a grappolo, procurate dagli Usa e vietate da una convenzione delle Nazioni Unite. Meno che mai sul pericolo nucleare, a più riprese minacciato sia da parte statunitense, sia da parte russa. Le armi di distruzione di massa, inquinano, intossicano, oltre naturalmente ad essere in grado di sterminare in un attimo migliaia di persone. Nell’ottica della maggior parte degli ecologisti à la page, il male assoluto sembra essere solo e soltanto la Co2.

Per tutte le ragioni fin qui elencate, il massimalismo ecologista è da guardare con grande scetticismo e sospetto. Non soltanto perché, nel presente e nel passato, ha fatto connubio con ideologie antinataliste quando non apertamente antiumane. Uno dei motivi che ci spinge a prendere le distanze – anche a costo di venire emarginati e derisi dalla maggioranza – sta nel fatto che l’uomo moderno, ben lungi dal riconciliarsi con il creato, continua a pretendere di dominarlo. In che modo? Ad esempio, assecondando l’illusione prometeica di poter condizionare le temperature mondiali, in un senso o nell’altro. Anche questa improvvisa guerra all’agricoltura e agli allevamenti, dichiarata con la scusa del “benessere animale” e delle solite emissioni, è un attacco frontale all’archetipo biblico dell’uomo custode del creato, in grado di migliorare l’ambiente naturale, pur rispettandone sempre gli equilibri fondamentali. Una guerra che, in realtà nasconde obiettivi meno nobili di quanto si creda, come, ad esempio, la sostituzione delle proteine animali con quelle dei discutibili “cibi sintetici”, attualmente sdoganati soltanto a Singapore ma presto disponibili anche negli Usa, nei Paesi Bassi e verosimilmente anche in altri Paesi occidentali, tranne l’Italia, unico ordinamento ad averli esplicitamente vietati.

Una follia inenarrabile, un sonno della ragione, da cui potremo uscire soltanto riscoprendo il vero significato della Genesi ma anche il magistero del mai troppo rimpianto Benedetto XVI, che, nella sua terza e ultima enciclica, la Caritas in Veritate (2009), scrive: “Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l’«ecologia umana» è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio” (CIV, 4,51). Joseph Ratzinger riteneva “una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse”: chiaro il riferimento al rispetto della vita umana, così ignominiosamente calpestata dall’aborto, dalla fecondazione artificiale e da altre aberrazioni. Sarà “ecologico” e “sostenibile” rispettare la flora e la fauna e al tempo stesso manipolare la natura stessa dell’uomo? Facciamoci una domanda e diamoci una risposta.